Sans Removyr: la promessa nascosta di Elisabetta di York

Gli oggetti, si sa, viaggiano nel tempo. In loro resta sempre qualcosa di noi, qualcosa che abbiamo voluto imprimere affinché i nostri figli, i nipoti e tutti quelli dopo di noi capissero chi davvero fossimo.
A volte basta un libro con una frase, con una firma, con un motto… per urlare al mondo, dopo secoli, chi eravamo e chi siamo ancora oggi, seppur solo nella memoria di chi ci incontra.

È quello che ha fatto anche Elisabetta di York, madre di Enrico VIII.

Alla corte di re Riccardo III, Elisabetta aveva accesso alla biblioteca dello zio.
E in quei libri lasciò alcune tracce indelebili. In questa prima parte parleremo di quella più misteriosa e criptica.

La troviamo nel Tristano in prosa, libro posseduto e firmato da Riccardo con la dicitura: «Questo libro appartiene a Riccardo, duca di Gloucester» (British Library, Harley MS 49, f.155r).

Sotto l’ex libris dello zio, Elisabetta firma per la prima volta con quello che sembra essere il suo motto: «sans removyr elyzabeth».

L’espressione, in medio francese, significa «per sempre, con costanza» (cfr. DMF, s.v. mouvoir) e deriva dalla formula più antica sans mouvoir / sans partir ne mouvoir, che indicava un sentimento incrollabile, «per sempre, indefettibilmente». Lo testimoniano diversi passi di Machaut:

«Si l’ameray, sans partir ne mouvoir,
De cuer, de corps, de penser, de pouoir,
Tout mon vivant…» (Les dames, 1377, 34*)
(Io l’amerò, senza allontanarmi né vacillare,
con il cuore, con il corpo, con il pensiero, con tutte le mie forze, per tutta la mia vita…)

«…Et qu’aveuc li demeurent, sans mouvoir,
Mon cuer, m’amour, ma joie et mon espoir.» (Les dames, 1377, 93*)
(…E che restino con lei, senza mutare,
il mio cuore, il mio amore, la mia gioia e la mia speranza.)

«…Quant ma cure
En si plaisant creature
Est sans partir ne mouvoir.» (Les lays, 1377, 332*)
(…Poiché il mio desiderio,
in così piacevole creatura,
è senza allontanarsi né mutare.)

Per questo, oltre alle traduzioni intuitive («senza cambiare», «senza dimenticare»), il motto può essere compreso soprattutto come una dichiarazione di costanza, di fedeltà interiore, di presenza che non vacilla.

Elisabetta quel libro lo lesse, lo amò e lo marchiò come per dire: «Io sono qui, io sono in queste pagine, io non cambierò mai, io non dimentico».

L’inclinazione è molto verticale, quasi trattenuta, con alcune lettere che piegano leggermente a sinistra. È un segno di forte autocontrollo, ritrosia emotiva, una volontà di non esporsi troppo, anche quando si dice qualcosa di intimo.

La pressione è moderata ma decisa, con tratti ben marcati (soprattutto nella “z” di elyzabeth).
Denota consapevolezza di sé e un bisogno di dare peso a ciò che si scrive. Ogni lettera sembra “affermata”.

La “s” iniziale è molto aperta, mentre la “r” finale in removyr ha un tratto ascendente che quasi si arriccia su se stesso: un segno di pensiero che torna, di memoria ciclica, di richiamo interiore.

La “z” in elyzabeth è particolarmente ricca, ben disegnata, quasi decorativa: potrebbe indicare orgoglio personale o il desiderio di lasciare una traccia riconoscibile.

La “th” finale è legata e chiusa, quasi un nodo: una chiusura, una protezione, un gesto di conservazione.

La scrittura è raccolta, non espansiva, leggermente compressa in larghezza: una persona che trattiene, misura, riflette molto prima di agire.

Le parole sono ben separate, ma sans removyr appare come una formula inscindibile, un’unità di senso e di identità.

È una dichiarazione di identità nella memoria, forse rivolta al tempo, a qualcuno o a se stessa: come se, scrivendolo, Elisabetta stesse ancorando il suo essere in mezzo al caos.

Curiosamente, sopra l’ex libris di Riccardo compare un’altra frase misteriosa: “Remember wat yow sayd A… A welle forton welle”
(Ricorda quello che hai detto, buona fortuna)

Alcuni storici concordano sul fatto che la scrittura sia contemporanea a quella di Riccardo e che probabilmente l’abbia scritta lui, ma è difficile dire quando, perché e per chi.

Questo motto di Elisabetta è quello che, a parer mio, più la caratterizza. In quel periodo Elisabetta non era più una principessa, perché fu dichiarata illegittima dal Parlamento dopo che si scoprì che suo padre, Edoardo IV, aveva sposato sua madre, Elisabetta Woodville, in seconde nozze mentre era già impegnato con un’altra donna. Di conseguenza, il matrimonio fu considerato nullo.

Ma non fu l’unico motto di Elisabetta: prima di questo, ce n’era uno più semplice ed emblematico: “figlia del re”.

Elisabetta era solita trascorrere le giornate tra letture, musica e ricami. Amava i libri sin da bambina e firmava quasi tutti i suoi volumi: la prima firma che troviamo è nella Storia del Santo Graal (British Library, Royal 14 E III, f. 1r), dove si legge:

«Elyzabeth the king’s daughter» (cioè “Elizabeth la figlia del re”).
È una grafia infantile, ma consapevole: “Io sono la figlia del re”.

La scrittura appare leggermente inclinata verso destra, segno di un temperamento emotivamente espressivo e relazionale, ma non impulsivo.
Non vi è eccesso di slancio: l’inclinazione è dolce, controllata… tipica di una persona che sente ma si trattiene.

Le “e” e “a” sono aperte: indice di ricettività, curiosità e una certa onestà espressiva.

Le lettere finali hanno tratti ad anello ampi ma incompleti: potrebbe indicare pensieri trattenuti, sentimenti non del tutto detti, o un senso di incompletezza.

La linea di base non è perfettamente diritta e questo può indicare una forte componente emotiva, sensibile alle variazioni dell’ambiente o dell’umore.

Le lettere sono abbastanza separate, non legate da un unico filo continuo: segno di una mente che riflette, pondera, non si lascia andare troppo facilmente.

La scrittura è di media grandezza, ma tende a restringersi verso la fine.
Questo è spesso indice di una persona istintivamente portata all’apertura, ma costretta dalle circostanze a essere riservata: senso del dovere, dell’umiltà, della prudenza.

La pressione è debole o medio-debole, forse anche per l’usura del tempo, ma suggerisce una mano non aggressiva, piuttosto delicata. Considerando che qui era ancora una bambina, potrebbe trattarsi semplicemente di una mano incerta: una personalità riflessiva, incline a interiorizzare.

Un altro esempio significativo compare nel manoscritto Garrett MS 168. Il manoscritto fu scritto e decorato a Bruges dopo il 12 settembre 1481, e successivamente rilegato a Westminster dal celebre “Caxton Binder”. Era stato realizzato per Edoardo, Principe di Galles, fratello di Elisabetta e futuro (anche se solo per pochissimo) re Edoardo V.

In quelle pagine, oltre alla firma di Elisabetta («Elysabeth the kyngys dowghter boke», cioè “Libro di Elizabeth, la figlia del re”), appare anche quella della sorella Cecily («Cecyl the kyngys dowghter», cioè “Cecily la figlia del re”).

Un gesto di affetto, forse, ma anche di identità e resistenza: imprimere il proprio nome su un libro fatto per l’erede al trono è una forma silenziosa, ma potentissima, di affermazione di sé.

La pressione è forte e costante: indica volontà, determinazione, padronanza.

Elisabetta sente il diritto e il dovere di ciò che dichiara. L’atto di scrivere non è esitante: afferma una presenza.

Le lettere sono leggermente inclinate a destra, segno di apertura emotiva, coinvolgimento, propensione al legame.

La “z” di Elyzabeth ha un andamento particolare, quasi gotico, elegante e controllato: raffinata ma decisa.

Le “g”, “h” e “k” (in kyngys, dowghter, boke) sono ampie, curve, ben marcate: indicano forza interiore, indipendenza e un certo desiderio di espressione personale.

Le maiuscole (la “E” di Elyzabeth e la “K” di Kyngys) sono slanciate ma stabili: rivelano consapevolezza del proprio status.

Le parole sono chiaramente separate, con equilibrio tra gesto e contenuto: segno di chiarezza mentale, autocontrollo e ordine interiore.

La scrittura non “corre”: resta ancorata alla linea, coerente. C’è autodisciplina, ma anche consapevolezza dell’impatto.

Le lettere sono di media grandezza, con tratti ampi nelle discendenti: denotano una personalità contenuta esteriormente ma profonda, che riflette molto più di quanto lasci trasparire.

A differenza della prima firma, più timida, esitante, infantile, qui Elisabetta sembra aver trovato una voce più stabile e decisa. Potrebbe suggerire una crescita emotiva o una fase diversa della vita.

Questa firma è un atto di affermazione identitaria: Elisabetta firma un libro come proprio, con piena consapevolezza del suo ruolo (“the king’s daughter”), ma senza ostentazione.

Il gesto è forte, elegante, silenziosamente autorevole.

Qui emerge una ragazza pienamente cosciente del suo valore e del suo ruolo, ma non arrogante: una figura che si muove tra fedeltà, introspezione e forza trattenuta. E qui Elisabetta aveva solo sedici anni.

Questi sono solo due dei motti e delle firme utilizzati da Elisabetta di York, dall’infanzia fino a quando visse alla corte di re Riccardo III.

Ma in quel periodo accadde anche qualcos’altro: Elisabetta si appropriò di un altro motto, non propriamente inventato da lei, ma più che altro un tributo di fedeltà e vicinanza a qualcuno che per lei era importante.

…Ma di questo parleremo nella seconda parte.

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