È successo di nuovo.
Ero in cucina, con la mia tazza di caffè tra le mani. Ho sentito un nome, non so da dove venisse, forse dalla tv, ma mi ha colpito perché mi sembrava di conoscerlo già. Subito dopo, quella sensazione netta e chiara: io questo momento, così com’è, lo avevo già vissuto.
Il modo in cui avevano pronunciato quel nome, la sensazione che mi dava, la posizione in cui stavo, la luce che rifletteva sul muro: tutto era stranamente familiare, come se stessi rivivendo una scena identica, già scritta da qualche altra parte.
C’è un istante in cui la realtà si incrina. Come uno scarto del tempo in cui qualcosa ti attraversa la mente e ti sussurra: “Aspetta… ma questo è già successo.”
Un bicchiere che cade. Una frase detta da qualcuno. La luce di un pomeriggio qualsiasi. Tutto è perfettamente ordinario, eppure dentro di te c’è la certezza che quella scena, quella sensazione è già passata sotto la tua pelle, nel tuo cervello, in un tempo che non sai nominare.
Questo porta il nome di déjà-vu. E per secoli ci siamo chiesti da dove venga.
La scienza lo definisce come un “errore” della memoria: una percezione sbagliata di familiarità. Il cervello, per un attimo, registra in anticipo e interpreta lo stesso evento due volte, dando l’impressione che sia un ricordo.
Le teorie vanno da piccoli cortocircuiti neuronali a discrepanze temporanee tra percezione e coscienza. Ma nonostante tutti gli studi, nessuno è riuscito a spiegare fino in fondo perché accada.
E forse è per questo che le culture del mondo hanno continuato a vederci qualcosa di più profondo.
Nell’induismo, il déjà-vu è un ricordo di una vita passata. L’anima vive molte esistenze, e ogni tanto un frammento di queste esistenze emerge. Un luogo, una parola, una sensazione: tutto può essere un eco karmica.
Nel buddismo il déjà-vu è legato alle vasana, impressioni mentali profonde, abitudini dell’anima che riaffiorano quando tocchiamo un punto sensibile del nostro percorso esistenziale. Non è un caso, è un passaggio.
Nella Kabbalah ebraica, l’anima può reincarnarsi e un déjà-vu potrebbe essere un segnale: lì, in quel luogo, in quel tempo, tu hai già camminato. Ed è giunto il momento di completare qualcosa che non era finito.
Nel pensiero cristiano più tradizionale, i déjà-vu erano visti con sospetto. Potevano essere trappole del maligno, come degli inganni. Ma per alcuni mistici erano segni: memorie angeliche, inviti alla vigilanza spirituale.
Nel sufismo, invece, si crede che il déjà-vu sia una crepa nella percezione che permette di cogliere un momento già scritto da Allah. Un sussurro divino, un segnale che sei esattamente dove dovresti essere.
Nelle tradizioni celtiche e sciamaniche, il déjà-vu è il segno che lo spirito ha già visitato quel momento, in sogno o in trance. È una frattura temporale dove i mondi si toccano.
Oggi, nelle fisolofie moderne il déjà-vu è stato riscritto dalla cultura pop e viene visto perlopiù come:
- Un errore della Matrix (si, il famoso gatto nero che miagola due volte)
- Un glitch nel sistema
- Una memoria genetica
- Un frammento dell’inconscio collettivo.
Tutti modi diversi per dire la stessa cosa: non possiamo ignorarlo.
Forse i déjà-vu non sono altro che soglie. Piccole crepe nel tempo dove qualcosa di eterno si affaccia. Come un richiamo e forse siamo più antichi di quanto ricordiamo…
Quando mi succede… io mi fermo e ascolto. Cerco di strizzare la mente e scavare in quello squarcio di tempo che la memoria mi ha regalato per trovarci indizi, ricordi, sensazioni che dopotutto non sono mai andate via da me.
E tu? Cosa pensi stia cercando di dirti il tempo quando inciampa?
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