Il re che tradusse un altro re

1792.
Siamo nel cuore della Rivoluzione francese. Le Tuileries vengono prese d’assalto. Tra i tanti oggetti rubati, strappati, buttati e bruciati… qualcuno prende un quaderno, piccolo, rilegato in 82 pagine.

All’interno, la scrittura è minuta e ordinata. Nessuno avrebbe potuto immaginare cosa contenesse. Quel manoscritto resiste alla lacerazione della Rivoluzione. Resiste ai roghi, alla censura e al tempo…

Per puro caso, finisce tra le mani di un editore parigino. Poi passa da una contessa, da un collezionista a una casa d’aste.
Compie un viaggio lunghissimo, e silenzioso, fino alla Lewis Walpole Library, in Connecticut, dove oggi riposa.
Sopravvissuto a tutto, come quelle tracce che la Storia tenta invano di cancellare.

E cosa conteneva? Una traduzione in francese dell’opera di Horace Walpole su Riccardo III.
Ma la cosa straordinaria è che quella traduzione era stata scritta di pugno da Luigi XVI.

Quando ti ritrovi davanti a certe cose, non puoi non rabbrividire. E non solo perché ci troviamo davanti a due re caduti a distanza di tre secoli esatti… ma perché entrambi furono traditi, disprezzati, condannati a una morte infame. E soprattutto perché, in quell’atto, nell’atto di un re che traduce un altro re, c’è qualcosa di più grande. Un gesto umano. Esistenziale.

Luigi XVI inizia la traduzione nel 1789, proprio mentre il mondo intorno a lui comincia a sgretolarsi. Mentre le folle urlano sotto le sue finestre con forconi e torce infuocate, lui siede in silenzio, prende un libro inglese tra le mani e traduce ogni parola nella sua lingua. Come per meglio comprenderne il contenuto, come per diffonderne il contenuto anche tra la sua gente.

Si tratta di Historic Doubts on the Life and Reign of King Richard III, l’opera in cui Walpole cercava di restituire dignità al re più calunniato della storia.
Non più il mostro di Shakespeare, ma un uomo. Un sovrano frainteso, sacrificato alla propaganda.

Spesso mi sono chiesta: cosa avrà pensato Luigi, mentre lo traduceva? Cosa lo avrà spinto a farlo?
Forse, in quel momento, si è rivisto tra le righe. O forse ha intuito che il tempo gli avrebbe riservato lo stesso destino.

Quando ci ritroviamo davanti a quel manoscritto, una cosa ci colpisce immediatamente: la scrittura.
Una grafia minuscola e ordinata. Pagina dopo pagina, ogni spazio riempito. Nessuna interruzione e nessun abbellimento. Solo parole, fitte e instancabili.

Come se il tempo stesse per finire. Come se ogni frase fosse un tentativo di trattenere il senso, il respiro e la dignità.
C’è chi ha ipotizzato che la seconda metà del testo abbia meno correzioni perché il re aveva acquisito più sicurezza. E chi invece crede che Luigi sapesse che il suo tempo stava per scadere. Che sentisse l’urgenza.

Che volesse finire prima che tutto finisse davvero.

Ed eccoci alla domanda che tutti si saranno già posti: Perché Luigi XVI, tra tutti i re, ha scelto proprio Riccardo III?

Forse perché Riccardo era stato ucciso due volte: una volta a Bosworth, e una volta nella memoria.
Perché il suo corpo era stato trattato e sepolto come fosse spazzatura.
Perché era diventato un mostro. Un demone utile ai vincitori.

Luigi doveva aver capito che presto anche di lui si sarebbe detto il peggio.

Perché la Storia non ha pietà dei vinti.
E così, nel tentativo di salvare Riccardo, stava forse cercando di salvare se stesso.

Ogni volta che ripenso a quel manoscritto, strappato da una folla, nascosto, venduto, ritrovato, immagino sempre due fantasmi che si guardano attraverso i secoli.

Riccardo e Luigi. Due destini allo specchio, uno che racconta l’altro per non svanire da solo.

E in quella preghiera di inchiostro, è impossibile non udire i timori, i richiami dell’inevitabilità. Qualcosa che somiglia al bisogno di essere compresi, di aggrapparsi a qualcosa, anche quando tutto crolla.

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